La sfida consiste nel dare forma, a qualcosa che forma non aveva e ancora non ha, come leggiamo nelle accattivanti parole di Antonio Errico¹, fraterno amico di Verri.

Aveva un sogno Antonio Verri, il grande folle sogno di un libro profondo e immenso, smisurato, che fosse tutto e nulla, riflesso e inconsistenza, nuvola e macigno. Perfezione. Sognava un libro, Verri: una forma gigantesca, gravida di corpi, di linguaggi, di silenzi e voci, di segni d’ogni sorta, insegne luci balbettii colori. E poi brusii, poi ritmi affannosi o pacati, come fossero respiro, palpito di cuore”

“Dev’essere digressione, iterazione, fuga, armonia e disarmonia, eco e risonanza, dev’essere sempre flusso e fluttuazione, materiale che si fa e disfa in continuazione, che si gonfia, si spande, si dilata, che chiude dentro sé ogni codice, tutte le immagini possibili, le possibili scritture, trasparenze, riflessi, le movenze dei corpi, tutte le possibili memorie, i possibili racconti”

“Voleva una lingua nuova, che fosse misura e precisione, essenzialità, sonorità e ritmo, il risultato di una mistura di lingue che gli consentisse di costruire il non libro, il testo che genera se stesso, che si riproduce all’infinito, che si sbriciola, si lacera, e poi si ricompone. Ecco: questo era il suo Declaro.”

Sognava di generare un Declaro, un libro poroso, una grande bolla, che pulsa, eccede, s’ingrossa, s’infiamma, che chiude dentro sé l’inizio e la fine, l’urlo e il silenzio, le storie che mai nessuno ha raccontato…

Il Declaro doveva inglobare, invadere, avvolgere, assorbire il mondo, stringerlo nel suo recinto, nelle sue trame.

Il Declaro cresceva, prendeva corpo. Era corpo. E come ogni corpo si nutriva: del corpo di Verri, della sua vita, del suo pensiero.

Stefan non poteva più riuscire a dominarlo, non riusciva più a resistere al suo incanto.

Ma chi era Antonio Verri.
Allora. Era un bambino alto, con la barba, che camminava lento ma che è arrivato dove molti altri non sono mai arrivati, dove molti altri correndo non arriveranno mai.
Era un uomo curioso di ogni fiaba, smarrito nel bosco di letture e di scritture, che aveva cuore di vecchio contadino e pensiero di raffinatissimo intellettuale.
E’ stato il padre di una generazione stupenda che non ha vinto nulla, né cattedre, né premi, né mortadella alla cuccagna, perché non ha saputo vendere parole al mercato dell’usato, perché non ha voluto arrampicarsi al palo ingrassato.
Racconta Aldo Bello: «Viaggiava con un’utilitaria catastrofica ma un giorno decise di prendere la littorina per andare in nessun luogo: un percorso adolescenziale, si giustificò. Arrivò fino a Gagliano del Capo, gli passavano per gli occhi immagini di terre sassose e di stazioncine rosse, il tam tam delle rotaie e la brezza di collina gli rimescolavano il sangue, chissà che mari e che pianure avrà sognato quel giorno, mentre dalla geografia minima del viaggio estrapolava reperti di storie e di poesia».
Di mestiere faceva lo scrittore.
Soprattutto ha scritto: Il pane sotto la neve; Il fabbricante di armonia; La cultura dei tao; La betissa; I trofei della città di Guisnes; Il naviglio innocente; Bucherer l’orologiaio.
Ha fondato e diretto “Caffè Greco”, “Pensionante de’ Saraceni”, “Quotidiano dei poeti”, “On board”. Ora Antonio Verri è racconto.

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